Covid19 – Ritratto della tempesta perfetta

Autor: iaasm 03-12-2024

Comparso sulla scena cinese nei primi giorni del 2020 per poi diffondersi in poche settimane su scala mondiale, il Coronavirus, o Covid19, si è dimostrato da subito capace di stravolgere le dinamiche del mercato del greggio a livello globale. Al culmine della più grave emergenza sanitaria della storia moderna, lo scarso coordinamento internazionale nella risposta alla pandemia e le incertezze sulla ripresa economica hanno pesato un ruolo determinante nella caduta dei prezzi energetici con il nuovo tonfo del petrolio a far tremare i mercati.

Guardando alle immagini di Wuhan, probabilmente in pochi avrebbero pensato che solo qualche mese più tardi pressoché la totalità degli stati occidentali avrebbe applicato la chiusura generalizzata sull’esempio della capitale dello Hubei. In alcune settimane, Italia, Europa e quindi Stati Uniti si sono rapidamente trasformati in un teatro parimenti apocalittico, in cui la popolazione si è vista privata di molte delle libertà individuali alla base della società contemporanea. Al di là dell’esperimento sociale, l’impatto immediato del lockdown si è abbattuto sulla vita dei cittadini, sui loro spostamenti e sulle abitudini al consumo. Il risultato: produzione industriale ai minimi, mezzi fermi e consumi stravolti. Quando a gennaio il Brent ha segnato i primi cali sulle preoccupazioni per la domanda cinese (il governo di Pechino ha invocato l’isolamento di Wuhan il 23 gennaio), nulla avrebbe fatto presagire che ad aprile si sarebbe piombati a 19 dollari, al di sotto dei livelli toccati nel gennaio 2016 (nel pieno di una crisi che già aveva scosso il settore, e per cui ancora ad inizio 2020 si parlava di ripresa). Nemmeno l’intesa raggiunta sui nuovi tagli alla produzione di greggio sembra aver restituito fiducia agli operatori: ad oggi, la volatilità è ancora lontana dall’arrestarsi, le incertezze dominano i mercati, le variabili in campo ancora molte.

L’accordo di aprile, che ha stabilito tagli per 9,6 milioni di barili giornalieri (circa il 10% della produzione globale) passerà alla storia come il maggior intervento di sempre sul contenimento della produzione petrolifera, un’intesa che solo un mese prima sembrava un miraggio, ponendo pressioni ribassiste sui prezzi. I numeri concordati vedono una riduzione immediata del 23% (basata sui livelli produttivi di ottobre 2018) con validità fino al primo luglio. Per i successivi 6 mesi si scenderà a 7,7 milioni di barili e quindi a 5,8 milioni di barili di minor produzione fino ad aprile 2021. Va ricordato come il precedente accordo fosse stato raggiunto solamente a dicembre 2019 per una riduzione allora pari a 1,7 milioni di barili-giorno, valida fino a marzo 2020. La sostanziale differenza nella magnitudine della risoluzione di aprile permette di comprendere la criticità del momento. L’intesa, per la quale è stato introdotto il termine OPEC++, ha visto la partecipazione e l’appoggio a diverso titolo dei paesi G20 e dei maggiori produttori indipendenti, pronti a intervenire concretamente se la condizione di oversupply dovesse protrarsi.

I protagonisti. Se già nel dicembre 2016 l’OPEC aveva aperto ad un coinvolgimento attivo di nuovi attori nel coordinamento di azioni incisive in nome della stabilità del mercato, la crisi innescata dal Covid19 ha reso necessario un ulteriore allargamento alle economie del G20, al fine di scongiurare un’impasse dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche. All’intesa sulla chiusura delle valvole, si unisce l’impegno di alcuni dei maggiori paesi importatori (tra cui USA, Giappone, India a Sud Korea) a farsi carico di una quota incrementale di scorte strategiche. L’OPEC a cui comunque spetta la maggior parte dei tagli, con circa 6 milioni di barili-giorno, sostituisce il suo storico ruolo di attore principale del mercato con quello di coordinatore di decisioni strategiche sotto la regia dell’Arabia Saudita, principale azionista del cartello. Regia saudita affiancata dalla Russia, in un’alleanza che a inizio marzo sembrava sul punto di implodere. Allora, lo scarso coinvolgimento dei produttori extra-OPEC e le differenti visioni sulle azioni necessarie per contenere il disavanzo legato al crollo della domanda avevano posto seri interrogativi sulla tenuta dell’asse Mosca- Riyadh.

Nella valutazione globale, va considerato come fino alle ultime ore, la risoluzione sia rimasta sostanzialmente in bilico per via delle reticenze del Messico ad un taglio pro-quota come previsto dall’intesa generale. A fronte di una richiesta iniziale di circa 400mila barili giornalieri, la posizione intransigente del presidente Obrador, fermo a 100mila barili, si è dimostrata vincente. Solamente l’intercessione degli Stati Uniti con Donald Trump intervenuto in prima persona, ha permesso di finalizzare l’accordo e porre la parola fine a settimane di tensione. Gli USA si faranno quindi carico di una riduzione di 250mila barili giornalieri, oltre ad una serie di interventi che verranno dettati dalle condizioni di mercato e dalle azioni contenitive già in atto da parte delle major. Per Trump è stato troppo grande il rischio di una instabilità prolungata alla luce della politica di indipendenza energetica sostenuta dal miracolo shale. Alcune migliaia di barili non rappresentano forse un conto sproporzionato dinnanzi allo scenario di prezzi insostenibili nel medio-lungo, e probabilmente già nel breve periodo.

Ripercussioni sui mercati. L’azione di coordinamento ha prodotto un immediato scatto dei prezzi sui mercati, ma l’effetto si è dimostrato effimero con i benchmark che in breve sono tornati di poco sopra ai livelli pre-accordo. L’emorragia al momento sembra bloccata, ma di ripresa ancora non c’è alcuna traccia. Di certo la struttura contango dei fondamentali (prezzi spot inferiori ai prezzi dei contratti future), induce gli importatori ad accumulare scorte di greggio, sostenendo in parte la domanda. Ma con la capacità di immagazzinamento in rapido esaurimento queste azioni sono destinate ad esaurirsi entro breve, in assenza di un sostanziale ripartenza della domanda.

Il 20 aprile le incertezze del mercato si sono abbattute sulle quotazioni del WTI, il benchmark americano, crollato pesantemente in territorio negativo, superando -30 dollari al barile sulle consegne di maggio, una condizione ritenuta nozionale e relegata alla teoria fino a qualche settimana prima. Pur senza entrare nel merito delle dinamiche occorse nei mercati finanziari, una considerazione di fondo appare chiara: con le scorte già ai massimi, il costo per immagazzinare nuovi volumi è divenuto superiore allo stesso valore del greggio estratto, costringendo i produttori a concedere ribassi significativi sulle consegne. Il risultato è un livello di prezzi delle commodities energetiche (petrolio ma anche gas) ai minimi storici e le prospettive di breve non danno alcun segnale di ripresa imminente. Se la stretta sulla produzione pone un controllo importante sul lato dell’offerta, è tutt’ora la domanda a rappresentare l’incognita principale. Secondo l’IEA, ad aprile la domanda mondiale sarebbe crollata di quasi 30 milioni di barili giornalieri, su base aprile 2019, a causa delle restrizioni in vigore. Per l’intero 2020 si prevede un calo medio di quasi 9,5 milioni di barili-giorno. In questo scenario, le compagnie petrolifere hanno risposto con interventi trasversali, riducendo costi operativi e investimenti sul fronte esplorazione e sviluppo e riconsiderando in tutto o in parte erogazione di dividendi ed attuazione dei piani di riacquisto azionari.

Risvolti sull’ambiente. In una crisi che entra nella storia per una serie di record negativi, il bicchiere mezzo pieno risiede nell’aspetto ambientale. Non saranno sfuggite infatti la immagini satellitari delle città italiane libere dalla concentrazione di smog, o dei delfini riapparsi in prossimità di alcune coste della penisola. Ad un’attività economica ridotta ai settori essenziali, si è associato il drastico calo nelle emissioni di agenti inquinanti nell’atmosfera. L’IEA stima nel 2020 una riduzione dell’8% di CO2 rispetto al 2019 (circa 2,6 Gt, ovvero la più grande variazione assoluta mai registrata), riducendo in larga parte la crescita aggregata degli ultimi 10 anni. A beneficiarne, in prevalenza nelle aree metropolitane, un’aria più pulita in virtù dei limitati spostamenti e del paradigma diffuso dello smart working. L’interrogativo è se e quanto potrà estendersi questa condizione con l’arrivo della tanto attesa ripartenza. Se lo shock immediato legato al Covid19 può fare pensare ad un impatto positivo sull’ambiente, gli scenari nel lungo periodo appaiono meno rosei con gli investimenti in energie pulite e in fonti alternative a risentire in misura particolare della crisi. Tra tutti, il settore della mobilità elettrica appare il comparto maggiormente esposto alla congiuntura negativa rappresentata dal crollo nella domanda di veicoli e dall’inevitabile calo degli investimenti connessi all’infrastruttura.

Quale ripresa. Nelle ultime settimane il termine “ripresa”, o la sua declinazione di “Fase 2”, ha assunto un significato quanto mai duplice. Alla grande voglia di ripartire presente a tutti i livelli, si contrappongono le statistiche giornaliere su contagi (e vittime) ancora in crescita a livello mondiale. Da un lato, gli sforzi attuati dai primi paesi colpiti si stanno traducendo in un sostanziale “appiattimento delle curve”. Dall’altro, la scarsa cooperazione internazionale registrata nella prima fase della pandemia ha permesso al virus di proliferare fino al continente americano, rendendo la situazione ancora di difficile controllo nelle aree rurali così come nei paesi con un accesso selettivo al sistema ospedaliero. Molto spesso poi, la situazione sanitaria appare molto differenziata all’interno degli stessi stati dove le misure di lockdown generalizzato, colpiscono ad oggi sia le “zone rosse” a maggior contagio, che le aree in cui il Covid19 ha avuto sinora una diffusione limitata.

È evidente come qualsiasi passo in avanti non potrà prescindere dal superamento dell’emergenza sanitaria. Quale che sia la possibile via d’uscita tra un’estensione del distanziamento sociale in atto, la scoperta di un vaccino o la più ardita immunità di massa, il tempo sarà un fattore chiave prima di raggiungere un reale effetto contenitivo. Tutto questo fa slittare gli scenari di ripresa economica fino al 2021, con relativo impatto sul PIL. Se è chiaro che l’economia mondiale sarà in rosso per tutto il 2020, risulta meno evidente quanto profonda sarà la recessione e come le diverse economie reagiranno. Sulla base delle stime del primo trimestre, per alcuni paesi G20 è prevedibile un calo anche vicino alla doppia cifra percentuale piombando su livelli di PIL post-crisi. Le manovre espansive, al momento largamente promesse, dovranno mantenere un clima di fiducia e liquidità nel sistema al fine di evitare lo spettro di una nuova crisi finanziaria sulla scia di quanto visto nel 2008. La sfida per governatori e banche centrali è ora tradurre questi “stimoli” in domanda e in punti di PIL. L’incipit di riaccendere i motori è chiaro, come questo avverrà resta ancora tutto da capire.

 

Nicola Pugliese (Anno Medea: 2016-2017)
Laureato in International Management presso l’Università Bocconi nel 2015, dopo un’esperienza all’interno del settore bancario, è giunta la scelta di comprendere ed essere coinvolto direttamente nelle dinamiche del mondo dell’energia. Appassionato di strategie di crescita aziendale, mi occupo dell’Area Negoziati Upstream presso Eni.